Uno stress test senza precedenti per gli operatori delle reti internet, che nel periodo dominato dal coronavirus, hanno visto raddoppiare il traffico dati a causa della quarantena
In Italia come nel resto del mondo la popolazione si vede imporre come misura principale di contenimento quella dell’isolamento a casa. Un super lavoro degli operatori delle reti internet, determinato dall’incremento della fruizione di video, da whatsapp, dalla didattica e dal lavoro a distanza, da un uso totalizzante che accorcia le distanze ma che cela aspetti su cui vale la pena soffermarsi. Tra questi, sicuramente, un deciso consumo energetico, evento forse non previsto nel calcolo di quanti, globalmente, hanno fissato i paletti ambientali con l’obiettivo di salvare l’ambiente e l’uomo dall’incremento della Co2.
Restare maggiormente in casa, molto più connessi rispetto al passato a causa dell’incremento dello smartworking e di attività scolastiche sempre più legate all’utilizzo del web: queste nuove pratiche potrebbero diventare ‘strutturali’ alla società post coronavirus. Ma con quali costi ambientali ed energetici?
Una prima risposta venne fornita già nel 2014 da tre ingegneri di una università cinese: in quel momento il consumo di energia dei grandi data center era di 26 gigawatt (un gigawatt è pari a un miliardo di watt), un impatto che corrispondeva in quell’anno a circa l’1,4% del consumo elettrico di tutto il mondo. Allora il tasso di aumento era del 12% all’anno: circa il triplo del tasso di crescita dell’economia mondiale, una velocità tale da raddoppiare in sei anni e triplicare in nove il fabbisogno di energia e le emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera. È molto probabile dunque che questo settore dell’economia mondiale sia oggi responsabile per circa il 2% delle emissioni nocive.
Nel mondo iperconnesso, dunque, si guarda ai data center come ai nuovi energivori da domare. I data center rappresentano la sede fisica del cloud: qui si trovano le nostre email vecchie e nuove, foto video, molti dei documenti, i film o la musica che scarichiamo o ascoltiamo in streaming, i siti internet, interi mercati di e-commerce, programmi di software, infrastrutture del sistema finanziario, archivi aziendali. La nuvola è la memoria del mondo contemporaneo. Tutto questo materiale è racchiuso in agglomerati di interminabili file di computer che richiedono moltissima energia per funzionare a ciclo continuo e moltissima, anche, per essere raffreddati.
Secondo alcuni calcoli, i data center della sola Amazon Web Services in Virginia, da cui passa il 70% del traffico dati del mondo, consumano l’energia che serve a far funzionare Milano.
I colossi del web, sempre più attenti alla reputazione, stanno cercando di porre rimedio a questo sistema altamente inefficiente, iniziado a percorrere sempre più convintamente la strada della sostenibilità. Google, per esempio, ha investito tre miliardi di dollari in progetti di energia rinnovabile e sia il motore di ricerca, sia Azure di Microsoft, si sono impegnati a compensare per intero l’anidride carbonica che immettono nell’atmosfera con le loro sedi del cloud. In altri termini, i due grandi gruppi producono o comprano e mettono in circolazione tanta energia rinnovabile quanta ne consumano da fonti fossili per le loro infrastrutture. Microsoft si è persino dotata di un direttore per la sostenibilità dei data center. Amazon invece ha preso una strada diversa. Si è sì impegnata a far funzionare le infrastrutture del cloud al 100% con energia rinnovabile in futuro e sta investendo in campi eolici e campi a pannelli solari proprio in Virginia. Il mantenimento di dati nella ‘nuvola’, dunque, ha un prezzo ambientale non indifferente, e la sfida futura sarà quello di renderlo neutrale, innocuo per l’ambiente.